Diritti, Famiglia, Mediazione

Il legame che non si può spezzare: la sofferenza dei figli quando i genitori si separano

“I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili,
quanto dalle modalità traumatiche con cui ricordiamo l’infanzia”
J. Hillman – Il codice dell’anima

Riprendo quanto scritto nella mia tesi di Master perché ritengo che oggi più che mai si sottovaluti la sofferenza dei bambini e dei ragazzi di tutto il mondo, determinata troppe volte da adulti che non sanno o non vogliono ascoltare e che pensano solo ai loro interessi.
Una delle situazioni di dolore, in cui si trovano i bambini e i ragazzi, è proprio quella relativa alla separazione dei loro genitori, senza contare la sofferenza di molti padri e di molte madri  che vengono privati della loro funzione di genitore.

Molto tempo fa Aristotele affermava che la famiglia è il luogo della tragedia e più di recente il sociologo Bauman (in “Amore Liquido”) scrive che “…nella modernità liquida in cui viviamo, i legami affettivi sono fragili, mutevoli, sempre in discussione e l’insicurezza che ne deriva suscita il desiderio contraddittorio di stringerli e di allentarli”.

Le varie statistiche sulle separazioni e i divorzi sembrano tristemente confermare queste affermazioni.
Sorge spontaneo chiedersi:
“Come mai il tasso delle separazioni e dei divorzi è aumentato in maniera esponenziale?”(anche se oggi si parla di diminuzione delle separazioni solo per motivi economici)
“Che cosa rende così fragili i legami coniugali?” e soprattutto
“Quali sono le conseguenze per i figli?”
A queste domande non è facile trovare una risposta soprattutto perché, in un’epoca caratterizzata dall’indifferenza, spesso la separazione familiare viene ancora considerata una questione privata da risolvere il più presto possibile e con discrezione, senza contare che da tempo in Italia ( e non solo) non si attuano politiche concrete per il sostegno delle famiglie stesse né a livello legislativo né sul piano economico e sociale.
Inoltre, non si da’ il giusto peso alle conseguenze che questo evento può causare nei figli e nel loro intero percorso esistenziale perché l’intera società sembra contribuire ad anestetizzare le esperienze dolorose eludendo le domande, cancellando rapidamente i sintomi e lasciando inalterate le cause.
Ma l’esperienza della separazione può essere molto dolorosa se non viene riconosciuta. E spesso, afferma la psicologa Vegetti Finzi (in “Quando i genitori si dividono- le emozioni dei figli”), questa minimizzazione del danno e la sottovalutazione del dolore esacerbano la solitudine di chi soffre.
Il bambino in questo modo non può sentirsi che solo, con i suoi sentimenti di rabbia e di dolore per non essere compreso e rispettato nel suo modo di essere e di vivere la separazione dei suoi genitori.
Anche questo è un modo d’essere mal-trattato e così accade anche, quando il genitore non gli comunica di avere capito il perché del suo comportamento e non “dà parole al suo dolore” esprimendo, con le sue parole, quello che il bambino sta provando.
I bambini esprimono il loro disagio attraverso il linguaggio del corpo e questo avviene anche quando sono adolescenti e poi adulti; i conflitti e le sofferenze che ne conseguono trovano sbocco nel linguaggio del corpo che li esprime anche attraverso la svariata gamma dei disturbi psicosomatici che sembrano essere in aumento.

Molte, quindi, sono le ragioni per occuparsi di separazioni familiari e delle sue inevitabili conseguenze sia a livello sociale che affettivo-relazionale.

La pratica della mediazione familiare assume una posizione importante in quella che sembra essere diventata una “forma tipica “ (quella del divorzio) della relazione familiare occidentale e fa emergere bene le conseguenze dei conflitti coniugali sui figli, anche se queste sono ancora difficili da valutare e prevedere con il conseguente rischio di banalizzare la sofferenza dei figli stessi, grandi o piccoli che siano.
Le numerose testimonianze dei bambini che hanno vissuto l’esperienza della separazione, raccolte da psicologi, ricercatori, docenti confermano che i figli sentono dolore nello stesso modo degli adulti, quando sono esposti ad episodi di alta conflittualità e vivono lo stesso tipo di emozioni come la rabbia, la tristezza, la colpa, il senso d’impotenza.
Nonostante ciò, tale capacità è spesso sottovalutata e ignorata dagli adulti e il bambino che soffre non è quasi mai preso sul serio e, anzi, troppe volte viene incoraggiato a non dare peso a quello che gli accade; a svendere i vissuti quotidiani e quindi anche la sua sofferenza.
È triste notare che questo tipo di comportamento, da parte degli adulti, ha contribuito a sottovalutare e a negare la capacità stessa dell’infanzia di provare dolore, come qualsiasi emozione o sentimento e ha ottenuto l’anestetizzarsi di tanti bambini nei confronti dei loro vissuti.
Alice Miller (psicoanalista) diceva che “il bambino può vivere i sentimenti solo se c’è una persona che con quei sentimenti lo accetta, lo comprende, lo asseconda. Se manca tale condizione allora … preferisce non viverli affatto”.
Così facendo l’adulto dimentica che, anche per lui, la consapevolezza di non essere capito è un’esperienza dolorosa e, indirettamente, provoca sofferenza nel bambino che non ascolta e che sottovaluta dicendo “in fin dei conti è solo un bambino”.
E allora occuparsi della sofferenza del bambino serve a non favorire la strumentalizzazione del mito dell’infanzia come “età felice” per diminuire l’impatto del dolore sulle coscienze degli adulti.
Serve ad abolire, soprattutto nel campo giuridico, pregiudizi quali:
– i bambini dimenticano rapidamente;
– è un’occasione per crescere;
– è meglio una separazione che vedere i genitori litigare

Sorge spontaneo, di fronte all’indifferenza e all’incomprensione degli adulti, chiedersi se questi siano in grado di riconoscere la sofferenza del bambino e se questa loro incapacità sia dovuta al fatto che hanno, in qualche modo, rimosso le loro sofferenze o le hanno censurate.
O forse gli adulti di oggi, come afferma la psicologa e psicoterapeuta Valentina Morana in un articolo del 2005, non sono in grado di comprendere i loro figli perché lo stato psicologico di questi ultimi ha un’evoluzione superiore rispetto a quello dei loro genitori; perché, rispetto a trent’anni fa, i bambini pongono domande a cui gli adulti non sanno fornire delle risposte.
Volenti o nolenti, ci troviamo oggi di fronte ad un bambino che pensa, osserva e “sente” quello che succede attorno a lui e, dice la Dolto, se lo lasciamo da solo con domande senza risposte, se siamo vaghi rispetto a qualcosa che sta accadendo nel suo ambiente o se diamo spiegazioni false, possiamo provocare in lui un senso di ansia, di paura o comunque di disagio e di sofferenza che possono lasciare delle cicatrici a livello emotivo.

Secondo Goleman (in “Intelligenza emotiva”), è nell’intimità familiare che impariamo a percepire noi stessi come individui e quali saranno le reazioni degli altri ai nostri sentimenti, che cosa pensare su questi sentimenti e quali alternative abbiamo per reagire.
Tutto questo dovrebbe facilmente farci immaginare cosa succede quando “l’intimità familiare” viene turbata dai conflitti dei genitori, da violenze o maltrattamenti in generale.
Significative sono, a questo proposito, le parole che un bambino di sei anni dice alla sua terapeuta: “Oggi voglio dipingere, Ilaria, metti una musica che mi dia delle speranze. I miei genitori hanno litigato tutta la sera e io sono triste… Userò i colori chiari, mi rendono meno triste; fanno sciogliere il mio cuore…ho bisogno di colori chiari perché adesso il mio cuore è senza allegria… Vedi questo uccello che ho dipinto sopra la casa? Piange! Piange perché crede di aver perso i suoi genitori e si sente solo; anch’io mi sento solo quando i miei genitori litigano… So di non essere l’unico bambino che soffre, vorrei aiutare anche gli altri bambini, ma non li vedo, così quando sono solo e i miei genitori litigano, guardo la TV perché mi aiuta a mettermi coraggio e non sento più le loro voci. Ma, poi quando vado a letto sono così debole e triste che non riesco a pregare.
…. Quando sono triste ho paura di rompermi. Ho paura che si rompa il mio cuore.”
E di esempi come questo si potrebbero riempire intere pagine.

Il dolore e la sofferenza provati sembrano “rompere” nel bambino un delicato meccanismo, sembra che la musica della loro vita un certo giorno si sia spenta ed eccoli paralizzati a causa di una ferita.
Non si può negare, afferma la Parkinson (una delle pioniere della mediazione familiare), che la maggior parte dei figli sono shoccati e sconvolti quando i genitori si separano e la loro comunicazione si interrompe. Le loro reazioni possono essere diverse e spesso esprimono il loro stato d’animo con il comportamento più che con le parole. A seconda dell’età in cui vivono questa esperienza, i bambini e i ragazzi possono mostrarsi aggressivi, confusi, impauriti, abbandonati, depressi.
Ciò che è fondamentale per loro è il modo in cui i genitori gestiscono la separazione e gli spiegano i cambiamenti perché i figli hanno bisogno di aiuto nel comprendere ciò che sta succedendo e devono essere rassicurati sul fatto che continueranno ad essere amati e curati e che non hanno nessuna responsabilità della rottura del legame di coppia.
Per i figli, inoltre, è importante mantenere i legami e le relazioni con entrambi i genitori e le altre persone importanti nella loro vita e hanno un disperato bisogno di genitori che sappiano prendere decisioni attente e fare accordi senza coinvolgerli e abusare del loro sostegno emotivo.

A questo scopo il mediatore familiare potrebbe essere molto utile per aiutare i genitori a mettersi nei panni dei figli e a valutare alcuni aspetti riguardanti la praticabilità delle loro proposte rispetto agli inevitabili cambiamenti della loro separazione e a non dimenticare che il legame affettivo con i figli non si può spezzare, riconoscendo la continuità del ruolo sia del padre che della madre nella vita dei figli stessi.
Lo stesso Jung aveva affermato che il bambino vive nell’atmosfera psicologica dei suoi genitori e risente perciò direttamente di tutti i loro conflitti irrisolti o i loro problemi non affrontati. Se i genitori affrontano i loro problemi, anche i loro figli stanno meglio.

Ma quanti genitori riescono a fare questo?
Quanti di loro, presi dalle loro emozioni e dalla loro sofferenza, riescono a tenere presente i bisogni dei loro figli?
Si può contribuire a creare un mondo ideale dove i genitori, che non vanno più d’accordo, comunicano ai figli la decisione di separarsi senza avvilirli con i loro litigi e spiegano con calma le ragioni che li hanno indotti a prendere quella decisione?

Anche se questo clima idilliaco non è facile da instaurare, e forse è spesso impossibile, credo che la pratica della mediazione possa contribuire, in alcuni casi, a favorirlo e a incrementarlo, migliorando la comunicazione e la relazione tra i genitori.
L’obiettivo di un accordo, comunque, passa attraverso la consapevolezza del conflitto che vivono i genitori e la sua risoluzione attraverso strumenti messi a disposizione dal mediatore.
In ogni caso in questo delicato processo è fondamentale la volontà di entrambi i genitori.

Penso che dovrebbe essere promossa una sensibilizzazione e una presa in carico a livello sociale delle cause che provocano la sofferenza nel bambino che vive questa situazione e ciò può essere attuato solo con una formazione specifica di tutte le persone che, più o meno professionalmente, si occupano di bambini piccoli e grandi.
Spesso l’enfasi data alle conseguenze del divorzio e della separazione ha distratto da quello che può fare un’adeguata prevenzione attraverso un’educazione alle relazioni familiari, alla costruzione del patto genitoriale e una formazione alla gestione dei conflitti.
Come afferma Watzlawick il “linguaggio del cambiamento” può essere studiato e appreso e in questo la mediazione familiare può dare un notevole contributo, insegnando e diffondendo proprio un nuovo linguaggio.
Bisognerebbe inoltre promuovere una specie di “Carta dei Diritti dei Bambini nel Divorzio” a livello europeo (se non mondiale) in modo che i genitori divorziati si facciano carico delle proprie responsabilità nei confronti dei figli e che tutti gli adulti coinvolti, sia a livello legale che sociale, abbiano bene in mente quali sono i bisogni di chi, come i bambini, spesso non hanno grandi possibilità di scegliere e non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto.
Nell’ottica della prevenzione è fondamentale anche verificare e documentare progetti rivolti a supportare i genitori nella conoscenza del bambino e nella capacità di cogliere le offerte dalla comunità e dalla nuove pratiche come quelle della mediazione.
Lo stesso Bowlby affermava, negli anni ’50, che “se una comunità tiene ai suoi bambini, deve proteggere i loro genitori” e, in paesi lontani e a volte più saggi di quelli “civilizzati”, un proverbio africano ricorda da sempre che:
“Per allevare un bambino ci vuole un intero villaggio”.

In ogni caso finché l’adulto censura l’espressione di sé a vari livelli, è difficile che comprenda un bambino, che comunque esprime.
Per comprendere il bambino, l’adulto prima deve saper ascoltare se stesso e riconoscere le proprie debolezze e paure. Solo un adulto che sa ascoltare sé condivide, perché riconosce nel dolore del bambino il proprio dolore. La condivisione e la relazione in quanto scambio, sono la chiave di accesso alla comprensione del dolore.
Il dolore emotivo, nel bambino come nell’adulto, è il campanello d’allarme che informa che qualcosa di sé non è stato compreso e deve essere approfondito e analizzato per conoscere, così come il dolore fisico informa della presenza di un problema fisico di cui s’ignora la presenza.
Il dolore emotivo, come afferma Galimberti, è quindi uno stimolo costitutivo dell’esistenza e in quanto tale non va censurato, ma com-preso in quanto risorsa necessaria per conoscere.